IL CANAPAJO

DI GIROLAMO BARUFFALDI

LIBRO SECONDO

Dell'arare la terra: qual modo sia il migiore: dè varj letami: della quantità da darne alla terra: del vangare..



Felice età, che da l'aratro intatte
Davan le terre i frutti lor maturi,
Nè l'umano sudor, piucchè la pioggia,
L'erbe innaffiava, nè dovea 'l bifolco
Pensare a l'avvenir vario ed incerto!
Ahi, che n'andò sì bella età felice,
Nè più, meschina, a ritornar s'arrischia,
Dacchè l'uom per desio di farsi grande,
Avaro e insaziabile divenne!
Or dee l'agricoltor pensar d'ogni ora
A l'avvenir, in terra seppellendo
Le sue speranze, al variar bizzarro
De le stagioni sì incostanti esposte,
Nè trasandare un dì l'aspetto nuovo
Di Cinzia, nè del sole il vario giro,
Se non vorrà le sue sostanze, e tutta
L'arte del viver suo perder col tempo.
Tu, che vorrai perciò del canapino
Seme trar frutto, fa che risecate
Le biade tutte in lor stagion mature,
E già ne l'aja, e ne' granaj riposte,
Ogni stoppia rimanga anche recisa,
Sicchè ne resti tutto 'l campo imberbe.
Il sole allor co' suoi cocenti rai,
(Fin che nel cielo il sirio Cane attizza)
Purgherà ben le muffaticcie glebe
Per l'ombra fatta da le verdi biade,
E penetrando fin dentro 'l midollo,
Andrà il calore innato inviscerando
Fra terra e terra, tanto che, caduto
Là dentro il seme poi, tosto germogli,
Nè nuovo caldo, per disciorsi, aspetti,
Ad animar quell'orditura interna,
Che intera tutta con la fronda, e 'l frutto,
E fin con la fibrosa sua radice,
Incarcerata tien la pianticella.
Nudo il campo così da queste paglie,
Prepara pure il neghittoso aratro,
E i pigri buoi, che tempo ora è d'usarli,
Nè più tenerli in mandra, o a la pastura.
Con questo, che dirò ferrato carro,
Rompi le glebe, e cavane alti scanni,
E ogni vestigio denudato turba
De la prima cultura, sicchè quanto
Terreno a l'opra tua sarà commesso,
Da ponente a levante, e dal meriggio
Al sempre formidabile aquilone,
Tutto di nuova superficie adorno,
Per secondar le tue speranze, appaja.
Spigni pur oltre i buoi, finchè riesce
Comodo il solco a la cultura usata
Del giornalier viaggio; e poi ritorna
(Volte le spalle a l'orizzonte primo)
A ripiantar il vomero lucente
Poco, o lì presso, e torna colà dove
Già cominciasti il tuo lavor primiero,
Sempre novella terra discoprendo
Di goder disiosa e l'aria e 'l sole,
Dov'era pria mortificata e fredda.
In questo andirivieni, e in questo giro,
Io voglio 'l solco assai profondo, e tale,
Che la terra sepolta si ravvivi,
E a respirar l'aria più aperta salga.
Ma non sempre così: questa fiata
In molti solchi pur diviso resti
Il campo tuo, che poco, o nulla cale.
La prima prima pettinata è questa,
Che quel duro terren squarci a l'ingrosso,
E fa quanto fa un pettine ad un crine,
Che rabbuffato sia: molto vi vuole
A ripulir la discriminatura,
Nè gran danno è se alcun gruppo rimanvi.
Quando poi torni a ripigliar l'aratro
In stagion nuova, allor non vo', che segno
Alcun di sua profonditate appaja.
Con la vicina ed ultima solcata
Che farai, copri la già fatta fossa,
E siegui così sempre a rindossare
Per otto, o dieci solcature eguali,
Siccome l'onda, che l'altr'onda incalza,
Nè del suo primo alzar vestigio lassa:
Così la terra, che da un solco è tratta,
E ch'era sotto in tenebre sepolta,
Sorge a rifar la superficie nuova,
E quella ch'era già del campo a vista,
Nel più profondo solco si nasconde.
Apparirà in tal guisa una pianura
Tutta egual, ch'io non so perché s'appelli
Vaneggio, o vaneggione: altri quaderno
Il chiama, perchè forse ha quattro lati.
Questa sarà la preparata piazza
Al tuo sudore, ed a la tua cultura:
Finchè in selva convertasi, e n'appaja
Il verde e folto canapajo alzarsi.
Che se 'l campo è maggiore, e se t'avanza
Altra terra atta, cui fidar tal seme,
E tu siegui 'l lavoro, e ne ricopia
Vicino al primo un altro simil vano
Diviso sol da un solco, che scomparta
La terra, e per chi v'entra il passo appresti,
E l'acque giù cadenti anche ricetti.
Così farai finchè terra a quest'uso
Atta rimanga, e l'opra compirai,
E sarà ben compiuta allor, che 'l vomero
Quanto può, ne la terra si profondi,
E l'interiora ricavando ad essa,
Tutta al fin la rimova, e la rovesci,
Tal che nulla d'incolto vi rimagna,
Che a questa pianticella impedir possa
Lo stender bene, e assicurar sue barbe.
Non farai ciò però, se 'l terren molle
Sia d'acqua molta già dal ciel piovuta,
Che strugge il seme, e non ti dà alcun frutto.
Poi che ciò fatto avrai, stando in Lione
Sotto la sferza de l'ardente Apollo,
Riposti i tuoi giovenchi, ed il tuo carro
Fino ad altr'uopo (che verrà ben tosto)
Pensa a dotar la terra, ed arricchirla.
Non creder già, che preziose spoglie,
(Come a dotar le ricche spose è in uso)
Ella ti chiegga: il suo desire è solo,
Che tu la copra (vedi genio sozzo!)
Di lordo stabbio, ma che vecchio sia,
Mezzo, macero, trito, e ben concotto;
Altrimenti nocivo 'l proverai,
E vestirà d'inutil' erba il campo.
Prima dirò qual sia 'l miglior di quanti
Escrementi a quest'uopo usar dovrai.
Quel, che gli armenti de l'ovil ti danno,
(Sia pecora, sia capra, o sia montone)
Quello è fedele, ed è fruttifer tanto,
Che sua virtù per sino al settim'anno
Dura, e pruova ne dà con l'abbondanza.
Poi siegue quel de le bovine mandre,
Dove rumini 'l toro e la giovenca.
Questo pel corso di quattr'anni regge
Nel suo vigor, e fa 'l padron contento;
Ma non così già quel, che da le stalle
Nobili, ove i destrier' s'odon nitrire,
Il mozzo vile ogni altro dì trasporta
Ad impinguar la fumigante massa.
Misto egli è troppo di più biade aduste ,
E mal dal dente cavallin digeste:
E se per anni ed anni non lo macera
L'acqua, o lo star nel suo monte sepolto,
A le nebbie, a le nevi, a l'acque esposto,
D'erbe è ferace, ed è dannoso sempre.
E peggio è poi, se dopo che tu l'abbia
Buttato al campo, stagion calda siegua,
Come succede ne la fitta state:
Allor la terra come abbrustolita
Rimanda questo fime, e inferma giace,
Nè frutto ti può dar da lì a molt'anni.
Altro letame have l'industria umana
Scoperto, e 'l tragge seminando fave
Nel campo, o pur la ruccola silvestre,
Che ruchetta fra noi suole appellarsi.
Queste nate e cresciute, con l'aratro,
Che tutte a capitombolo rovescia,
Trovan la tomba ov'ebber già la culla,
Dentro sepolte al lor terren nativo,
E in novella putredine converse,
Con quelle foglie lor pingui, e polpute.
Ma stabbio d'erbe, debil sempre, e floscio,
Si giudicò da agricoltor perito,
Quando strame di giunco egli non sia,
Nato in val peschereccia, o basso prato,
Come da noi Musotta, e Guazzalocca,
Col qual, fatto che avrai letto ai giuvenchi,
E macero che sia, ne farai strato
In sul tuo campicel per fecondarlo.
Piuttosto (e la ragion più al vero attiensi)
L'ugne piuttosto d'animai quadrupedi
Macere e trite qua e là gittate
Pel canapajo tuo gioveran molto.
E gioverà 'l cojaccio, o 'l pelo, o lana
In minuti ritagli, o limatura
Di corna, o cenci d'ogni stampa misti,
Come i centoni de' pitocchi astuti,
Che a brani cadon, senza fil che tenga.
Tutto, purchè sia putrido, e ben trito,
Tutto giova a ingrassar, come conviensi,
La terra sì, che pingue frutto renda:
Ma se puoi, non lasciar le colombine,
O gli escrementi di qualunque pollo,
E gli usa, non sul primo straziarsi
Il campo, ma allor quando già vicina
L'ora, e 'l giorno sarà di sementarlo,
Come al suo tempo ti verrò a scoprire.
In tanto, poi che avrai del grossolano
Letame la tua terra ricoperta,
E sia giunto quel tempo, che abbandona
La Verginella innamorata il sole,
Le celesti bilance ripigliando;
Fa che lo stabbio non più in monte colmo,
Ma col badil, per la campagna tratto,
Quanto mai può 'l tuo braccio, in ogni parte,
E ad ogni gleba liberal si mostri,
Sicchè neppure un granellin di terra,
Che derelitto ne rimanga, v'abbia:
Ma nol far mai quando 'l suo colmo pieno
Mostri Cinzia dal cielo alta e pendente.
Questo punto è fatal, per quanto almeno
E' l'osservanza de' bifolchi esperti,
Che di contado son peripatetici,
E del celeste studio più ne sanno,
Che quanti mai con l'astrolabio in pugno
Fur di Rosaccio, o di Ticon seguaci.
Seminato così lo stabbio in tutto
Quel campo che a la canape assegnasti,
Tosto nel dì a venir, di buon mattino,
Quando l'alba rosseggia, e 'l cielo alluma,
Torna pur con l'aratro a ritagliarlo,
E a seppellirlo fin che pingue appaja,
Nè Febo co' suoi rai l'inaridisca.
Da se mandando va sotto la coltre
Le sulfuree sue parti, e le oleose
A la terra che 'l tocca, e ne discaccia
La sterile natura, disponendo
Ogni suo picciol atomo a far frutto.
Come l'industre profumier, che vuole
Tutta una stanza inebbriar d'odore;
Una stilla di balsamo odoroso,
Che versi su quel pian, già la fragranza
Inonda tutte le pareti, e 'l tetto.
Ma tu sai la materia, e non ancora
Chiaro ben sai de la materia l'uso,
Nè la misura quanta basti, e quanto
Sia 'l capital, che qui metti ad usura,
Prima che quel terreno si ritagli.
Ricordati però, ch'io qui favello
Del primo stabbio, e non del fino fino,
Che usar dovrai quando sarai sul punto
Di giù versare a piena mano il seme.
Se sia 'l letame ben concotto, e trito,
(E 'l tempo è, che lo mostra) sicchè possa
Tagliarsi, e fender come densa pasta,
Che si maneggi per le man' del cuoco;
Allor ne la tua mente hai da dividere
(Come facean gli antichi Auguri 'l cielo,
Con l'indovino curvo lituo in mano)
La misura del campo, e ad ogni tanto
Di terreno, che compia un centinajo,
E di più ancor quarantaquattro tavole
Di quadro piè, da cento piè per tavola,
(Dal che un'intera tornatura compiesi)
Coprilo tutto, come ben convienti,
Di cinque carri colmi di tal fime,
E nulla più; che tanto basta a darti
Copioso frutto de la tua fatica,
Ed a moltiplicar la tua semente.
Ma se 'l letame sia nuovo e indigesto
Di raddoppiar la dose non t'incresca,
Nè ti dolga il veder molt'erbe inutili
A convertire il canapajo in prato.
Tal danno avverrà ancor, se chiuso e stretto
Terrai lo scrigno, e de lo stabbio invece
Di mandra, amerai quel che si ammonticchia
Per le case più povere e meschine,
Dove ogni avanzo, ogn'immondezza, ed ogni
Fango fa massa, e vendesi a vil prezzo,
Quanto val la pigion d'un focolare.
Nè ti fidar di quel letame immondo,
Che tanto è in prezzo per virtù d'appalto,
Di cui gran copia dal vicin paese
Navigar ti vedrai fin sul tuo porto.
Costor, che di penuria fan guadagno,
Godon del nostro giogo, e purchè il lucro
Abbiavi dentro, ann'ogni odore in pregio;
E san dir, che gran studio, e gran fatica,
E vi si assorbe gran denaro ancora.
Ma chi sa dove il diavol tien la coda,
Sa quel letame dove nasce ancora,
Che a noi per manna ognor vender si vuole:
Merce d'accatto vario, e rimasugli
Di latrine pestifere, dal ghetto
Immondo, e vile ricettacol tratti;
O steril fango, ed arenoso avanzo
Misto d'umane feccie e di carogne,
Che si calpesta ove nasce, e trovasi
Per derelitto lastrico a le vie.
Questa è la mercatura, e questo è 'l traffico,
Che a peso d'oro, ed a misura corta,
Col privativo titolo d'appalto,
Qual peruviano balsamo si spaccia.
Ma in tempo di penuria alcuna volta,
Son saporite, a par del pan, le ghiande
Vo' dir, che dove non abbondan prati,
O regie stalle, e si coltiva ogni angolo,
Sicchè appena un sentier si trova aperto
Dove varcar, forz'è soffrire il giogo,
Ed appigliarsi a qual t'offra, o dannoso,
O inutil stabbio il venditore avaro:
Sicchè tu rivestendo il tuo terreno
Di questo abbominevol putridume,
Dovrai da l'arte ricercarne aita,
Per far che ancor l'infruttuoso frutti.
Perciò al lavoro muterai tenore,
E per più inviscerar dentro 'l tuo campo
Quel boja, che pagar pur ti convenne,
Pria di squarciar la terra, copriraila
Di questo fime contumace, e dopo,
Per più sempre celarne anche la vista,
Tutto quant'è seppellirailo arando.
Poi nuovamente nel prefisso tempo,
La terra col tuo vomer ritagliando
Trarrailo a l'aria umiliato, e domo.
Indi, allor che depositar vorrai
Con la semente il tuo tesor nel solco,
Nel tumulo di pria buttal rovescio,
Come cadaver interdetto e infame,
La fronte al ciel di rialzar non degno.
Così per tre fiate risorgendo,
E altrettante cadendo in sepoltura,
La malvagia natura alfin deposta,
Rimarrà dentro per dar moto al seme.
Là dove, se per due sole rivolte,
Rompi 'l terren, sempre riman quel desso
Inutile, infingardo e traditore,
Perchè quel ceffo già coperto in pria
Non si camuffa, ed ostico rimane,
E 'l sol, che l'odia, infruttuoso il rende.
Ma perchè taccio la miglior cultura,
Che 'l villan fa gagliardo, e 'l padron ricco?
La dirò qui, perché sebben di molta
Utilità, però di rado è in uso,
Nè far si può se non da chi ricolmo
Abbia l'erario suo d'argento e d'oro,
O pur tal campicello abbia, che Febo
Lo guardi appena di passaggio un'ora,
Sicchè 'l lavoro in breve dì si compia.
Chi vuol la terra sviscerar davvero,
E trar dal bujo le più occulte glebe,
Giacchè 'l terzar la terra ito è in disuso
Per la cresciuta villanesca inerzia,
Usi la vanga, e 'l vomero abbandoni.
La ferrea vanga a morder fu la prima
Il terren duro ne l'età d'argento,
Dopo che 'l secol d'oro sen fuggìo,
E tolse al campo il natural suo seme.
Guardi però, che 'l vangator sia esperto
Ne l'opra sua, e sia la vanga tale,
Che di lamina abbondi in tutti i lati;
E 'l suppedaneo, o sia 'l ferreo vangile,
Su cui col destro piè si calca, e aggrava,
Per conficcarla drittamente in giuso,
Due palmi almen nel manico sovrasti:
Così che ogni fiata nullameno
D'un piè di terra penetri, e ricavi,
E come pasta da coltel recisa
Due piedi almen lungi da se la vibri,
E dal colpo si stritoli, e sfarini.
Caggiono in tempo tal (perché non puote
Quanto ricava abbracciar mai la vanga)
Caggiono in tempo tal, briciole, e gromme
Nel solco fatto, e il prode vangatore
Col medesimo ferro ha da ritrarle,
Sicchè sia 'l taglio ognor pulito, e terso
Come canal, che per ruscel sia puro.
Rinculando così di filo in filo
Giusta la presa via vedendo andrai
Sempre terra novella alzar la cresta,
E dir (se mai possibil fosse udirla)
Anch'io d'esser feconda ho disianza,
Anch'io sospiro di vedere il sole.
Il tempo è questo di sterpar da quella
Sommossa terra tutta la nodosa
Importuna gramigna, e al foco darla,
O a l'inerte asinello, che l'aspetta.
Ha i suoi giorni quest'opra, e non occorre
Al primo romper de la terra usarla,
Ma quando sol con la seconda piaga
Vuol ritagliarsi 'l preparato campo,
E corre la stagion de lo Scorpione:
Che se pioggia trattienti, o per burrasca;
E tu ritarda, e l'opra al fin conduci
(Pur che 'l giel non induri 'l tuo terreno)
Sebben anche ne l'orrido Dicembre,
Quando col Sagittario il sol duella.
Bella allora vedrai, pulita, eguale
La pianura del campo, come sposa,
Nel dì de le sue nozze, preparata
Il seme a ricettar, che la fecondi.
Se stagion fosse da piantare il Majo,
Come di Maggio a le calende è in uso,
Vorrei su d'una quercia, o su d'un pioppo,
Vicino al campo de la mia cultura,
Alzar tra verdi frondi, in mezzo a un cerchio
Di vaghi fiori la famosa vanga,
Che 'l mesenterio a questo suol rivide,
E preparò a la canape il covaccio,
Sicchè l'agricoltor, di qua passando,
A questa origin de la sua fortuna,
Un atto almen di riverenza usasse.
Chiara la vorrei far piucchè la marra
Già da lo Sforza Attendolo vibrata
Su l'alta noce, e che di là pendendo,
La fortuna guerriera a lui predisse.